La visione del pittore è una nascita prolungata. Maurice Merleau-Ponty
Maria Chiara Mignani ama viaggiare: con il corpo, con l’anima, con la commozione negli occhi. E il viaggio costituisce, di per sé, un continuo preambolo, l’attesa di qualcosa che verrà, un’ansia felice. Per dirla con Merleau-Ponty, una nascita. Talvolta, la complessità stratificata di un luogo emerge con violenza di fiamma, come semi che spacchino il guscio e fecondino il mondo, fuochi d’artificio o lame argentee.
L’artista ama le derive, le svolte impreviste nel percorso. La sua curiosità si fa conoscenza, la realtà osservata nelle moltitudini dei segni e trasposta sulla tela, aderente alla vita e assieme assoluta. Il viaggio nello spazio è, insieme, anche un viaggio nel tempo e contro il tempo; corsa folle che la razionalità di Maria Chiara blocca e rapprende tra le mani, per poi restituircela stillante di perle. Viene alla luce, con l’opera, l’origine delle cose: un vedere ininterrotto, per calchi e strappi, inserti cartacei che accentuano la componente materica, e tinte assolute. Nulla a caso: Mignani possiede una solida formazione accademica, pittura ed affresco; nella costruzione gestuale, pone la medesima cura utilizzata per un soggetto della tradizione, nature morte, esercizi di morandiana memoria. La stessa attenzione ai calibri, alla struttura dell’immagine.
Nel viaggio, tutti noi siamo tempo plurimo, e durata: ogni cammino è segno comune, archeologia del paesaggio, eco del mare. Destini, che il desiderio dell’artista, la sua riconoscenza riconoscono e perpetuano: nel rarefarsi dell’atmosfera, nel gelo improvviso che fa risaltare le ombre sulla spiaggia, nella rivisitazione luminosa della sua Venezia.
Ogni storia ci arriva, oggettiva e straniata, misurata in quei particolari che la pittrice afferra. Così il Ghetto di Venezia, e la Gerusalemme più nascosta ed intima, la formula del bosone di Higgs e il ritmo delle onde sulla battigia sono istanti di mistero, crepitìo universale. Preghiera, infine, felicità sottile del volo. Maria Chiara ha questo potere, inscrivere i cieli cosparsi di stelle nel gesto infinito dell’attesa, e della partenza; marcare il racconto d’ideogrammi giapponesi, per regola e per amore. Qui sta il fascino delle sue opere agite e meditate, nella vertigine sottile che la realtà stessa concede: pittura della distanza necessaria, del giusto peso; pittura dell’antico stupore, e dell’azzardo senza limiti, come di chi parte per tornare, e narrare.
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